La Bellezza impressa
di Gionatan De Marco, direttore UNTS della CEI
Non è possibile esprimere ciò che non si è. E se dalle mani ingegnose e creative della persona possono venir fuori dei capolavori, sarà perché la sorgente di ogni capolavoro espresso è la persona stessa che porta impressa la Bellezza, in modo sublime, a vertice di tutta intera la capolavoro-creazione a cui il turismo conviviale necessariamente guarda e che ne caratterizza le proposte e le esperienze. Senza l’incontro con il creato e con i volti non è possibile pensare un turismo che fa della convivialità il proprium e che si differenzi in modo netto con un turismo del mordere o dell’usa e getta. Senza l’incontro con i creato e con i volti non è possibile tracciare percorsi di turismo conviviale che vuole dare la possibilità all’ospite che lo vive di pronunciare le stesse parole e di vivere le stesse emozioni dell’Autore di ogni cosa: “E Dio vide che era buona”[1].
L’aggettivo ebraico tob suggerisce sia il buono che il bello[2]. «La luce è la prima creatura di Dio e tale è l’entusiasmo dell’autore sacerdotale nel sottolinearne l’importanza, la bontà e la bellezza che varia la formula “Dio vide che era cosa buona” specificando: “Dio vide la luce: sì, è cosa buona”. E il significato di tob qui più che mai non può essere ristretto a designare una buona riuscita, ma esprime davvero l’entusiasmo e l’ammirazione per quell’opera che il sacerdotale sembra voler suggerire che ha stupito e colpito Dio stesso: “Dio vide la luce: che bellezza, che bontà!”. Il testo potrebbe essere tradotto anche così»[3].
Nella versione greca dei LXX l’aggettivo tob è tradotto con kalós che evoca con una sfumatura più marcata il bello, ma non solo. Tob esprime un senso morale, per cui si traduce con buono, come ci ricorda il libro della Sapienza: «Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte»[4]. Ma tob esprime anche un senso di carattere pratico, per cui si potrebbe tradurre con utile, conforme al suo scopo. Infine, tob esprime un senso estetico, per cui bisognerebbe tradurlo con bello.
Vivere l’esperienza del turismo conviviale è vivere in un laboratorio in cui si tocca la bontà, l’utilità e la Bellezza impressa del creato. La bellezza è qualcosa di originario, proprio della creazione. È Francesco d’Assisi a suggerirci le giuste parole per esprimere questa verità: «Altissimu, onnipotente, bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfane, et nullo homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi’ Signore, cum tuscte le Tue creature»[5]. La creazione – ci ricorda San Francesco nel suo Cantico – è sorella e madre, bella, accogliente. È come una sorella con la quale condividiamo l’esistenza ed è come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia. La creazione è intrinsecamente bella. La Bellezza non è frutto di una conquista umana, ma dono. La bellezza è dunque qualcosa di fondativo. E da questa consapevolezza nasce il nostro atteggiamento verso la bellezza impressa del creato, non un atteggiamento di dominazione, spesso porta per sfruttamento e imbruttimento, ma un atteggiamento di chi si riconosce posto al centro della creazione come figlio e fratello, chiamato a coltivare e custodire[6]. E «mentre “coltivare” significa arare o lavorare un terreno, “custodire” vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura»[7].
Vivere l’esperienza del turismo conviviale è riconoscere la Bellezza impressa di ogni volto che si incontro lungo la strada. La bellezza del creato, infatti, giunge a compimento con la creazione dell’uomo e della donna. L’essere umano è infatti a immagine e somiglianza di Dio: «Dopo la creazione dell’uomo e della donna, si dice che “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn 1,31). La Bibbia insegna che ogni essere umano è creato per amore, fatto ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gn 1,26). Questa affermazione ci mostra l’immensa dignità di ogni persona umana, che non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno. È capace di conoscersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre persone»[8]. È ciò che ricorda il Concilio Vaticano II quando afferma: «Dio non creò l’uomo lasciandolo solo: fin da principio “uomo e donna li creò” (Gn 1,27) e la loro unione costituisce la prima forma di comunione di persone. L’uomo, infatti, per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti»[9]. La prospettiva personale del nostro essere è costitutivamente essere-nella-relazione, a partire da quella relazione paradossale perché non reciproca né paritaria ma asimmetrica e incommensurabile, in cui l’io si trova costituito da un altro – il Noi-Creatore – che lo anticipa, lo sorprende e sfugge alla sua presa. «L’originario sul quale si costituisce l’umano non è l’ego cogito ma l’ego cogitor, non l’io che pensa ma l’io che è pensato, non l’io che si pone, ma l’io che è posto, cioè l’io ospitato che si vive nello spazio del donato. […] Essere ospitato è essere introdotto nello spazio che è oltre e altro del possesso e della miità, lo spazio dove, al braccio che si distende e si prolunga per prendere il mondo e dire è mio, si sostituisce la mano che accoglie, e dove, all’occhio che misura e commisura il mondo alla sua mira, seguono le labbra riconoscenti, capaci di dire grazie»[10].
Si delinea così quella Bellezza impressa in una soggettività ospitale e accogliente, sempre attraversata dall’alterità[11], capace di mutare l’avidità dello sguardo in generosità, il desiderio di possesso in dono, un soggetto che scopre la propria individualità e unicità attraverso la relazione non asimmetrica con l’altro che lo chiama alla responsabilità, ad una risposta ineludibile e insostituibile che, sull’asse verticale, assume i toni della filialità e, sull’asse orizzontale, si traduce in fraternità[12]. Attraverso le vie della filialità e fraternità la persona potrà vivere la sua Bellezza impressa, il suo essere imago Dei, ontologicamente relazionale, realizzato con il proprio agire virtuoso[13], col proprio essere homo donator.
È la grande sfida antropologica, prima che spirituale, che il turismo conviviale vuole realizzare: diventare un unico e grande laboratorio di dono[14], reciprocità e generosità[15] in cui ospite e comunità ospitante si fanno artigiani di un buon e bel modo di essere. «Il dono struttura oggi, come ieri, il sistema stesso delle relazioni sociali, in quanto queste non sono riducibili esclusivamente alle relazioni d’interesse economico o di potere, per quanto pregnanti esse siano»[16], correndo anche il rischio di non ricevere nulla in cambio e che consente di vivere lo scambio oggettivo sul registro della gratuità[17]. «Solo la gratuità dimostrata, l’incondizionalità sono suscettibili di sigillare l’alleanza che avvantaggerà tutti e, quindi, in fin dei conti, chi prenderà l’iniziativa di essere disinteressato»[18]. È una possibilità, il turismo conviviale, per ritornare alla convivialità, a vivere l’esperienza di lasciarsi interpellare dall’altro[19] e scoprire la verità di una Bellezza impressa caratterizzata dalla sfera del dono le cui regole non sono dettate dal mercato, ma dalla regola fondativa della persona felice: «vi è più gioia nel dare che nel ricevere»[20].
Naturalmente la logica del dono è reale, concreta, incarnata e vivere l’esperienza del turismo conviviale è riscoprire il forte valore simbolico della Bellezza impressa nel corpo di ognuno. L’esperienza del corpo è la prima forma del sentimento dell’alterità che ci fa percepire altro-tra-gli-altri. «La corporeità diventa il luogo simbolico dell’uomo nello spazio e nel tempo. Il corpo dice la simbolicità dell’uomo, cioè la necessità di darsi agli altri e di dirsi a se stesso, attraverso l’ambivalenza del corpo e del mondo»[21]. Un darsi che nasce dall’essere stato dato, come ricorda il Salmo 40. Il corpo che noi siamo, ma che viene da noi, è la nostra in-scrizione originaria nel senso della vita. Ciò che è più inalienabilmente mio non viene da me e mi rinvia ad altri da me: cogliere il corpo come dono significa interpretare la vita come dono, dunque predisposti a dar senso alla vita facendone a nostra volta un dono. […] Il corpo è appello e memoriale della vocazione di ogni uomo alla libertà e alla responsabilità»[22].
La Bellezza impressa è dunque sempre contestualizzata nella prospettiva ampia e feconda di un’ecologia integrale che richiede una vera e propria conversione di atteggiamenti della persona verso il mondo. E non bisogna mai dimenticare che la Bellezza impressa bisogna custodirla, occorre prendersene cura perché ha affascinato lo stesso Noi-Creatore. È un’esperienza di stupore che sorprende, come quando ci troviamo di fronte a qualcosa altro da noi che, venendoci incontro, ci interroga, ci interpella. È fonte di meraviglia, occasione di lode, in cui gioiamo della Bellezza di ogni cosa e, soprattutto, di ogni volto che si porge alla nostra visione, che si fa vocazione, invita a una risposta. «In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’io diventa se stesso solo dal tu e dal noi, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il tu e con il noi apre l’io a se stesso»[23].
[1] Gn 1,4.10.12.18.21.25.31. Solo nel v.31, a compimento della creazione dell’uomo, il sacerdotale scrive “era molto buono”.
[2] Cfr. Giuntoli F., Genesi 1-11. Introduzione, traduzione e commento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013, p. 78
[3] Bianche E., Adamo, dove sei?, Qiqajon, Magnano (BI) 20073, p. 129
[4] Sap 1,14
[5] FF, 263
[6] Cfr. Gn 2,15
[7] Francesco, Laudato si’, 67
[8] Catechismo della Chiesa Cattolica, 357
[9] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 12
[10] Di Sante C., L’io ospitale, EMP, Padova 2012, pp. 47-52
[11] Si pensi, a tal proposito, al principio dialogico di Buber e a tutta la trattazione sull’alterità pensata e prodotta da Lévinas. Cfr. Buber M., Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 20044, pp. 59-83; Lévinas E., Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaka Book, Milano 1990, pp. 41-48.
[12] Cfr. Sanna I., L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica, Queriniana, Brescia 2006, p. 47
[13] Cfr. Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 71
[14] Cfr. Mauss M., Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 20023
[15] Cfr. Chanial P. – Fistetti F., Homo donator. Come nasce il legame sociale, Il melangolo, Genova 2011, pp. 29-40
[16] Ibidem, p. 9
[17] Cfr. Bordieu P., Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna 1995, p. 159
[18] Caillé A., Anthropologie du don, Desclée de Brouwer, Paris 2000, p. 51
[19] Cfr. Ricoeur P., Sé come un altro, Jaka Book, Milano 1993, p. 446
[20] At 20,35
[21] Brambilla F. G., Adamo, dove sei? Sulla traccia dell’umano, Cittadella Editrice, Assisi (PG) 2015, p. 91
[22] Manicardi L., Il corpo, Qiqajon, Magnano (BI) 2005, p. 11
[23] Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo, 9