Creare una razza forte e superiore all’interno di strutture capaci di rispettare l’ideologia del regime. Questa fu la visione di Benito Mussolini; una concezione che relegava le donne ai margini della società del tempo. Tutti i ruoli chiave dovevano essere riservati solamente agli uomini che rappresentavano il sesso forte; le donne, invece, erano fatte solo per procreare, per stare in casa, sottomettersi alla dittatura del pregiudizio e ricoprire solo compiti subalterni finendo, così, per sottomettersi alla dittatura del maschio.
L’attività fisica durante il “Ventennio” non fu finalizzata a emancipare le donne ma solo a rinforzare il corpo delle future eroine della patria, con poche eccezioni, come quelle di Trebisonda Valla, detta Ondina, che, dopo la medaglia d’oro conquistata negli 80 ostacoli alle Olimpiadi di Berlino del 1936, divenne un simbolo per tutte le ragazze italiane e strumento del regime. Il fascismo iniziò, così, a servirsi delle competizioni femminili per ragioni di propaganda e per esaltare la superiorità e la forza della “razza italiana”.
In questo contesto storico, dove il campione del mondo dei pesi massimi, Primo Carnera stava per diventare un eroe nazionale del fascismo, ai Giardini di Porta Venezia di Milano, si inserì la storia di un gruppo di amiche con un’età compresa tra i quindici e i vent’anni che covava la passione per lo sport e il calcio. Una storia di amicizia, di tenacia e di lotta politica ma anche di tifo perché queste ragazze del popolo, andavano sugli spalti dell’Arena a tifare per l’Ambrosiana.
Così, il gruppo delle “giovinette” si allargò piano piano e, in poco tempo, raggiunse i numeri per mettere in piedi una vera e propria formazione. Le ragazze, di fatto, avevano fondato la prima squadra femminile in Italia ma, come prevedibile, il loro gesto finì subito sotto la lente del regime allarmato dalla loro immediata popolarità. Qualcosa di simile accadde già nel 1917 in Inghilterra con la squadra delle “suffragette”.
Le calciatrici, consapevoli che stavano invadendo un territorio pericoloso, usarono tutte le cautele del caso, dandosi regole appositamente modificate per non compromettere la loro “funzione primaria” nella società fascista di future mamme, come asserì Mussolini nel famoso Discorso dell’Ascensione alla Camera dei deputati, il 26 maggio 1927. Corsa lenta e moderata, passaggi rasoterra, palloni più piccoli e portieri uomini, perché le future madri d’Italia non incorressero in infortuni o compromettano i loro organi riproduttivi e la loro fertilità essendo il calcio uno sport di contatto. Tutto doveva essere fatto con moderazione.
Le giocatrici si impegnarono, anche, a non offendere la morale e per questo giocarono con calzettoni a righe, maglie a maniche lunghe e gonne appena sopra le ginocchia. Guai a mostrare gambe e braccia.
La squadra fu eterogenea; ne fece parte la giovane Rosetta, con la grande passione per il calcio; Marta, determinata a combattere per la libertà di giocare; Giovanna, per cui, l’avventura della squadra fu anche un gesto politico; la coraggiosa Ninì Zanetti, la stratega e la mente del gruppo; Rosanna Strigaro che scrisse ai giornali, i quali, pur deridendole fin dall’inizio, non riuscirono a smorzare gli entusiasmi che si erano creati per quella bella iniziativa di emancipazione sociale.
Le “giovinette” ebbero nemici irriducibili ma anche un alleato inatteso: Leandro Arpinati, gerarca bolognese, presidente della FIGC e del CONI che, dopo aver aperto le porte alla pallacanestro femminile, concesse loro inizialmente, il permesso di giocare ma a porte chiuse.
L’aria cambiò completamente quando Benito Mussolini nominò Achille Starace segretario del partito. La politica sportiva italiana andò nella direzione opposta perché al regime non servirono delle calciatrici ma solamente atlete, come Ondina Valle, che potessero competere nelle discipline previste per le Olimpiadi del 1936 che si svolsero a Berlino.
Le ragazze, comunque, andarono avanti, non fermarono la loro iniziativa e nell’inverno del 1933 sfidarono i divieti del regime. Attraverso una lettera aperta inviata ai giornali sportivi, comunicarono la loro intenzione di giocare a calcio, in quanto tifose e amanti dello sport. Da quel momento, seguirono pochi ma intensi mesi di entusiasmi, perché le giovinette riuscirono a disputare la prima e unica partita l’11 giugno del 1933; sugli spalti c’era anche un campione del calcio italiano: Giuseppe Meazza.
Dopo quell’incontro, un comunicato dell’Ufficio sportivo della federazione dei Fasci di combattimento, sancì definitivamente il divieto di costituire società femminili di calcio. “Sono donne e il calcio è uno sport da maschi”. La squadra fu chiusa e le imprese delle ragazze si fermarono sul nascere.
Anche se la storia delle “giovinette” ha quasi cent’anni, la triste vicenda della prima squadra femminile di calcio in Italia, è lontana nel tempo ma attuale. Permette di riflettere sulla discriminazione delle donne nel mondo del calcio e dello sport dove sono ancora presenti diverse ingiustizie. Basti pensare che, in Italia, il calcio femminile è stato riconosciuto come professionistico solo dal 2022/23, dopo estenuanti battaglie sindacali e culturali.
È per questo motivo che la storia delle “giovinette” è più che attuale perché le ragazze sfidarono il regime e la sua cultura maschilista che, nella società contemporanea, è ancora predominante. È importante, quindi, conoscere la storia, il passato, mantenere viva la memoria per non dimenticare e non abbassare la guardia, dando per scontato lo sforzo di chi ha lottato ed è morto per promuovere i valori della democrazia e dell’inclusività.
Tommaso Liguori, caporedattore Skysport