di Alessandra Valente
Il dialogo con il mister è stato un piacevole scambio di opinioni e vedute. Sandro Campagna non è solo un allenatore, è l’Allenatore con la A maiuscola, colui che segue e guida i suoi ragazzi, i ragazzi del Settebello, tanto in vasca, quanto nell’esperienza di vita, perché il nuoto non è solo uno sport, è un patto di responsabilità con se stessi, con i compagni di squadra e con i membri dello staff tecnico.
Mister, lei nasce in Sicilia nel 1963. Come e dove inizia la sua passione per il nuoto?
Sono nato a Palermo. Quando avevo sei anni la mia famiglia si trasferì a Siracusa per motivi di lavoro di mio padre. Vivevo a poche centinaia di metri dalla piscina della cittadella dello sport e lì iniziai a fare nuoto, anche per correggere una malformazione dello sterno.
Lì è iniziata la mia passione per l’acqua. All’età di dodici anni rimasi folgorato dalla pallanuoto, iniziai a praticare questo sport, raggiungendo anche importanti risultati sia a livello regionale, che a livello nazionale, nelle varie categorie giovanili. Contestualmente al nuoto, da bambino, praticavo anche il calcio. È dall’abbinamento della palla in acqua che è nata una passione così forte e decisiva per il mio futuro.
Tre mondiali vinti, uno da giocatore e due da allenatore, una medaglia d’oro a Barcellona nel 1992. Qual è per lei il titolo più bello? Ha qualche rammarico?
Ho vinto tanto, ma ho perso anche tanto. Parlo di finali perse da giocatore, come nella finale dell’86, una sconfitta arrivata dopo 8 otto tempi supplementari, e di finali perse da allenatore, come nella finale di Londra, risultati che bruciano ancora. Queste sconfitte sono state seguite successivamente da importanti vittorie. Non mi sono mai fatto sopraffare dalle sconfitte, ma ho cercato sempre di trarne degli insegnamenti, per dare sempre il meglio di me. La medaglia d’oro olimpica da giocatore, “è un picco di gioia che ti fa toccare il cielo con un dito”. Mi ha dato una gioia che non potrò mai dimenticare, che è arrivata all’età di 29 anni, verso la fine di una carriera da giocatore, coronando tutti i sogni e le speranze di un ragazzo cresciuto in vasca. Le altre due gioie sono arrivate con le medaglie d’oro da allenatore: la prima perché ho dimostrato di saper portare al successo la squadra dal peggior risultato storico della carriera del Settebello, parlo dei mondiali del 2009, quell’undicesimo posto ai mondiali in casa, con me da allenatore in panchina. Dopo 24 mesi abbiamo riportato la squadra al tetto più alto nel mondo. Quella vittoria è servita a dimostrare, prima di tutto a me stesso e poi agli occhi del mondo, di essere in grado di riportare in testa il Settebello, al primo posto. E la vittoria di quest’anno a Gwuangju, con una squadra rinnovata, nonostante tante critiche mosse dall’esterno. Io ho puntato sempre sui ragazzi, ho creduto in loro e ho cercato di trasmettere loro la giusta grinta per dimostrare una grande forza di volontà e una capacità di soffrire, tali da trasformare la sofferenza nella gioia del risultato finale. Io so che quando investi nei giovani devi avere pazienza, ma i risultati prima o poi arrivano. E sono arrivati. Ho fatto una scommessa su me stesso e questa scommessa l’ho vinta. E’ stata vinta con un’immagine incredibile, con una squadra gioiosa .
L’oro di Gwuanju ha un valore speciale, quello di un paese che, come una squadra, lotta e supera le difficoltà. Lo sport ha davvero questo potere?
Ci siamo uniti nelle difficoltà raggiungendo un livello di coesione incredibile tra staff e giocatori e tra giocatori stessi. Ci siamo detti con chiarezza le cose che non andavano e abbiamo recepito queste cose con un grande senso di responsabilità. Nei momenti di difficoltà della squadra, non ho criticato l’operato dei giocatori cercando di colpevolizzarli, ma ho agito cercando di dare loro delle soluzioni. Lo stesso atteggiamento si può trasporre ad ogni realtà associativa. Il lavoro di squadra, un lavoro responsabile, fa raggiungere degli ottimi risultati.
Quello dell’allenatore, non è un ruolo facile. Ce lo ha appena illustrato con le sue parole, inoltre lei ha dichiarato che il ruolo dell’allenatore è donare dei valori sia agonistici che etici, formare atleti e uomini al servizio di un paese migliore.
Nelle difficoltà, la cosa più facile è quella di creare degli alibi, che siano essi cercati esternamente, l’arbitro, la sfortuna o qualcosa che è andato storto, oppure internamente, dando la colpa a qualcuno della squadra o dello staff, si cerca sempre il capro espiatorio. Agire in questo modo è sbagliato, perché bisogna educare a vincere e a trovare la forza dentro se stessi, e questo lo si fa non solo durante gli allenamenti, ma durante tutto il percorso, durante un torneo, durante una partita. È importante dare loro fiducia proprio in quei momenti.
Quanto è importante la preghiera nella sua vita?
Tanto, tanto perché trovo che il mio sia un mestiere in cui ci vuole tanta forza per programmare il lavoro, ma anche per “accogliere” le critiche che arrivano da vari campi e da vari settori. E poi bisogna gestire 20 e anche più persone, tra staff e giocatori, cercando di far ragionare tutti quanti con un'unica testa. In più, da allenatore, hai un ruolo di responsabilità verso l'intero paese che ti guarda e che si aspetta da te e dalla squadra degli ottimi risultati. Tutto questo peso mi viene alleggerito pregando, pregando non affinché le cose mi vadano bene, ma affinché io abbia la forza di portarle sulle spalle e abbia la forza di sostenere la squadra. Pregare mi fa essere più sereno, ed essere più sereno mi agevola nel rapporto con i giocatori e con i miei collaboratori, perché questo li aiuta a superare i momenti di difficoltà. Un momento di preghiera è sempre per me molto importante, sia che io preghi da solo, sia che io lo faccia in compagnia di amici che condividono con me questa esperienza.
Il tuffo dopo la finale Italia-Spagna nei mondiali del 2019 è rimasta ben impressa negli occhi degli italiani. Dopo tanti di carriera anni, lo sport, per lei, è ancora gioia?
Momenti come quello della finale dei mondiali del 2019, sono momenti indimenticabili, perché le immagini rimangono nel tempo. Vedere i giocatori con la faccia felice è la più grande soddisfazione. E questa immagine ho continuato a vederla nei giorni successivi al nostro rientro dalla Corea, quando i ragazzi hanno postato sui vari social le loro foto delle feste in famiglia, con gli amici, nelle proprie città.
Vedere gli occhi dei giocatori che brillano per la vittoria è la cosa più bella che un allenatore possa avere con sè. Donare felicità, come un padre la dona ai propri figli, così un allenatore ai propri giocatori. Questa è una soddisfazione enorme.
Il tuffo è stato meraviglioso. Ho voluto radunare tutti i componenti dello staff, abbiamo aspettato che scendessero dalla tribuna e ci siamo tuffati tutti insieme. I membri dello staff vivono un po' alle mie spalle, sono io ad avere una maggiore popolarità, ma senza il loro contributo forse non sarei arrivato ad essere quello che sono.