Don Arturo Bergamaschi è stato un grande alpinista. Un uomo che ha fatto la storia disciplina salendo per la prima volta in assoluto su alcune delle cime più alte del mondo, aprendo nuove vie di accesso, conducendo spedizioni pionieristiche, inaugurando uno stile seguito poi da altri.
È morto a 94 anni a Bologna. Una vita articolata la sua. Nato a Savignano sul Panaro (Modena) l’8 novembre 1928, entra in Seminario molto giovane e viene ordinato nella Diocesi di Carpi, il 29 giugno 1954, giorno dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, da Sua Eccellenza Mons. Artemio Prati. In realtà, rimane pochissimo nella diocesi carpense perché nel maggio del ’56 s’incardina a Bologna. Si laurea presso l’Università di Bologna in Matematica e Fisica, materie che insegnerà prima ai seminaristi poi ad alcuni Licei privati di Bologna.
Esercita il suo ministero sacerdotale in tanti ambiti anche molto diversi l’uno dall’altro. È ad esempio, Rettore del Seminario degli Oblatini presso il Santuario della Beata Vergine di S. Luca fino al 1980. È Assistente diocesano del Movimento di Rinascita cristiana, così come è, a vario titolo, impegnato nel mondo scout. La realtà che lo impegnerà fedelmente tutta la vita, dal 1959 al 2022, è l’aver celebrato la S. Messa presso il monastero delle Ancelle Adoratrici del SS. Sacramento in Bologna, assicurando l’assistenza spirituale e abitando nelle pertinenze del monastero.
“Pur così attivo, era un contemplativo, un uomo tutto di Dio capace di vederlo nella bellezza delle sue amate montagne” hanno raccontato le suore in occasione delle sue esequie.
Dal 1970 ha organizzato e guidato trentacinque spedizioni alpinistiche e scientifiche in diverse parti del mondo. Una passione così travolgente suscitata, come spesso accade, da un imprevisto. In piena giovinezza, gli viene diagnosticato un problema polmonare. La cura è la montagna dove, appunto, può respirare un’aria diversa da quella di città. Da allora, l’amore per la montagna non lo lascerà più fino ad associare il suo nome e il suo sacerdozio alle cime più alte. Per tutti, don Arturo era “il prete scalatore”.
L’attrazione non era soltanto limitata alla fatica della salita e all’avventura di percorre e tracciare vie inedite per il raggiungimento di alcune vette. A Don Arturo piaceva organizzare le spedizioni, curarle nel dettaglio, coinvolgere i compagni di avventura e generare consenso e attenzione da parte di un’intera comunità. Non era un vanto personale che cercava, ma un bene di cui potessero godere tanti, dopo di lui. Era inevitabile che alcune di queste imprese fossero segnate da alcuni inconvenienti dolorosi come quella in cui venne arrestato in Turchia e in cui perirono due suoi compagni di cammino.
Per Don Arturo, la montagna era una "dolce malattia ", ricorda uno dei nipoti. "I suoi racconti erano coinvolgenti, ti sembrava di essere lì con lui. Non era mai stanco di fartene partecipe e tu di ascoltare”.
Don Arturo non ha solo pianificato spedizioni in tempi in cui la comunicazione non era così semplice e in cui attendere mesi, se non anni, il visto del Paese le cui cime erano agognate.
Queste avventure preparate nei minimi dettagli, con le più sofisticate strumentazioni del tempo, venivano poi raccontate e descritte minutamente in libri che erano un patrimonio (e lo sono tutt’ora, a maggior ragione, oggi come testimonianza di un’epopea) per chiunque volesse seguirne i passi.
La pubblicazione di libri con documentazioni scientifiche come “Il Nepal e la HN ’79” ed. F.lli Annibali e “Alpinismo e avventura in terre calde” ed. Compositor, sulle scalate in Kurdistan e Afghanistan sono la documentazione di una meticolosità e di una professionalità, a tratti pienamente scientifica, in cui niente era scontato.
Anche le vette mai violate fino a quel momento e le vie nuove aperte per raggiungerle venivano segnalate in modo rigoroso attraverso ricostruzioni cartografiche e rilievi altimetrici.
Eppure, in lui non c’era mai solo un intento accreditabile scientificamente. Chi compiva tutto questo era don Arturo, ossia un sacerdote. Prima di essere uno scalatore, don Arturo è stato un sacerdote. Al ritorno a casa da ogni impresa c’erano l’altare delle Ancelle Adoratrici, per oltre cinquant’anni testimoni oculari che salire all’altare, celebrare la Santa Messa fosse la sua scalata più attesa. Nella celebrazione mattutina si ricapitolava la sua stessa storia, la ricerca di ogni uomo, la vita di ogni persona, specie quelle conosciute in terre in cui Cristo neppure era conosciuto, la passione di ogni scienziato che nei vari campi del sapere investiga nell’orditura di tutte le cose il volto nascosto di Dio.
Per questo, un giorno portò sulla punta dell’Himalaya una copia del Volto della Sindone di cui era molto devoto. Sull’apice della terra, don Arturo volle portare il volto del Cristo, morto e risorto, segno di quel Volto autentico ed esaustivo che, ogni giorno, alle 6,30 del mattino teneva tra le mani, innalzandolo e contemplandolo. A quella sommità ambiva salire ancor che sulle sue amate montagne.
Don Massimo Vacchetti, Incaricato Tempo libero, turismo e sport della diocesi di Bologna