Antonio Fantin non ha bisogno di presentazioni: classe 2001, campione e primatista paralimpico e mondiale nei 100 metri stile libero, quattro volte campione mondiale e otto volte campione europeo… And counting.
Durante gli ultimi Campionati del mondo di Madeira tenutesi a giugno, dove Antonio ha raccolto tre titoli individuali, un record mondiale e un record dei campionati, attraverso i suoi canali social Antonio ha annunciato la pubblicazione della sua autobiografia per i tipi di Piemme, “Punto. A capo. Dalla malattia all'oro paralimpico”, che è già in vendita in libreria e sulle principali piattaforme online
Si legge nell’introduzione al volume:
“Sono grato alle vittorie per il dono dell’entusiasmo, e alle sconfitte per il dono dell’umiltà. Sono grato al buon Dio perché non mi avrà dato tutto quello che volevo, ma certamente mi ha donato la felicità”. Antonio, tre anni e mezzo, ha una rarissima malformazione artero-venosa. È necessaria un’operazione molto rischiosa, ma con il supporto di una famiglia che prega e lotta con lui riesce a superarla. Quando inizia a nuotare, come forma di riabilitazione postoperatoria, in molti saltano subito alla conclusione che “non è fatto per l’acqua”, vedendolo immergersi titubante nella piscina gelata. Sedici anni più tardi quel bambino, diventato uomo, vincerà l’oro alle Paralimpiadi di Tokyo2020, dopo aver collezionato record e medaglie a tutti i livelli. In questo libro Antonio Fantin racconta la sua storia di rinascita, la storia di un bambino che ha saputo trasformare la disabilità in un sogno, fino a realizzarlo. Una storia di allenamenti e sacrifici, di ortopedici e fisioterapisti, carrozzine e tutori, allenatori e amici insostituibili, ma anche di fede, perché grazie alla fiducia nella provvidenza e all’amore per gli altri le difficoltà possono diventare opportunità”.
Siamo riusciti a raggiungere Antonio in un momento di pausa dopo le sue fatiche mondiali per qualche considerazione in più:
Come è nata l’idea di scrivere questo libro?
Dopo aver vinto la medaglia d’oro a Tokyo. Era l’ultimo trofeo che mi mancava. Quella vittoria mi ha dato l’opportunità di guardare la vita da una prospettiva per me nuova: davanti non avevo altri traguardi da raggiungere. Così mi sono guardato indietro. Ho ripercorso la mia strada e ho avuto il desiderio di raccontarla. Magari qualcuno che stava attraversando un momento di difficoltà si sarebbe potuto immedesimare in quello che ho fatto io e poteva ricevere la spinta necessaria.
Guardando indietro cosa hai visto?
Ho apprezzato tante cose che fin lì avevo dato per scontate. Ho rivisto tutto il lavoro fatto per raggiungere i traguardi che mi prefiggevo. Puntavo a risultati sportivi, ma quello che cercavo davvero era riuscire a vivere la normalità.
Quanto hai impiegato a scriverlo?
Ci è voluto qualche mese, mi sono preoccupato solo di trasferire adeguatamente su carta tutti i miei pensieri e le emozioni, senza mai guardare l’orologio o il calendario, cercando di utilizzare un linguaggio universale affinché questo libro possa raccontare non solo la mia storia, ma quella di qualunque persona che si trovi ad affrontare una difficoltà di qualsiasi tipo e la sappia trasformare in una opportunità, ponendosi nuovi obiettivi e godendosi il viaggio passo dopo passo.
Lo dedichi a qualcuno in particolare?
Questo libro è dedicato ai piccoli e grandi sognatori, che continuano a inseguire i loro obiettivi senza curarsi di tutti gli ostacoli che la vita gli pone davanti. Da un sognatore nasce sempre un vincitore, di questo sono profondamente convinto.
Che cos’è per te la normalità?
Guardare alla vita senza filtri, che nel mio caso sono sia la disabilità che lo sport. Normalità è vivere con amici che guardano a te per chi sei davvero: semplicemente Antonio. Non quello che sta sulla carrozzina, ma neanche il campione sportivo.
Quanto conta l’amicizia nella tua vita?
Tantissimo, quanto la famiglia. La vita è bella. Offre tanto, ma per goderla appieno devi poter condividere la gioia con qualcuno. Vincere la medaglia d’oro a Tokyo è stato bellissimo, ma se tornando a casa non avessi avuto, tra famiglia e amici, qualcuno che partecipava alla mia felicità, sarebbe durata ben poco.
E la fede?
Per me è come l’amicizia. Rivolgermi a Dio per chiedere aiuto, anche prima di una gara, non è una mossa opportunistica, ma è proprio rivolgersi a un Amico nel momento in cui senti di averne bisogno. Saper di poter contare su qualcuno è la cosa più bella.
Nel nuoto hai vinto tutto, ma sei ancora molto giovane. Che obiettivi ti dai?
Punto alle Paralimpiadi di Parigi nel 2024. Prima ci saranno, nel 2023, i mondiali a Manchester. Vorrei affrontarli con maggiore consapevolezza, saprò godermeli meglio di quanto fatto finora. Ormai ho vinto. Non devo dimostrare nulla. Provare a rivincere sarà bello.
Quanto lo sport può aiutare un disabile a raggiungere la normalità?
Può aiutare tanto. Siamo cresciuti come cultura: fino a qualche tempo fa le Paralimpiadi erano semplicemente le olimpiadi dei disabili, oggi invece c’è un’attesa particolare. Si apprezza la performance andando oltre il buonismo. Prima si lodava l’impegno, ora c’è interesse per il risultato. L’atleta paralimpico che sbaglia delude e viene criticato. E’ giusto e bello che sia così. E’ normale.
Questo libro è destinato a rimanere un episodio isolato o pensi di cimentarti ancora nella scrittura?
Non so se ci saranno altri esperimenti letterari. Di certo mentre correggevo le ultime bozze il mio sguardo era già rivolto al futuro e spero che nella mia vita ci siano ancora tante pagine da scrivere e tante storie da raccontare a me stesso e agli altri.
Cosa consiglieresti a chi si trova in una simile alla tua?
Di provarci, non rassegnarsi. C’è una vita bella da vivere. Capita quel che capita. Ci si ferma ma poi si riparte.
Punto. A capo.
A cura di Don Andrea Vena, Direttore Ufficio Sport diocesi di Pordenone